Alain Elkann, quando la cultura diventa sensibile polimorfia

Nella bellezza botanica dei Giardini Hanbury di Ventimiglia abbiamo intervistato Alain Elkann, giornalista, scrittore, docente universitario, presidente dell’associazione Amici dei Giardini Botanici Hanbury, un intellettuale dal talento inquieto che divide la sua vita personale e professionale tra Londra, Torino, New York, Gerusalemme e la Grecia, i luoghi della geografia della sua anima e del suo polimorfismo culturale.

Lei da molti anni ha un particolare osservatorio avendo la possibilità di intervistare ogni settimana grandi italiani che lavorano e vivono all’estero. Ma come è percepito all’estero il nostro paese?
L’Italia è un paese visto molto bene, apprezzato e stimato, è un paese fatto di persone simpatiche ed efficienti. L’opinione dell’Italia all’estero è molto migliore che in patria per svariate ragioni, perché gli italiani sono dei grandi lavoratori, ottimi artigiani, cuochi, musicisti, cantanti, artisti, scienziati, medici, scrittori che fanno sempre onore all’Italia. L’Italia deve smettere di piangersi addosso perché le cose per gli Italiani, nel mondo, vanno molto meglio di quanto si possa immaginare.

Lei è nato a New York da padre francese e madre italiana, vive tra Gli Stati Uniti, Londra e l’Italia: accetterebbe la definizione di viaggiatore alla ricerca di destinazioni culturali inquiete?
Preferirei definirmi un cittadino dei Giardini Hanbury perché questo è un bellissimo giardino anglosassone che ospita piante mediterranee e si trova al confine tra la Francia e l’Italia. L’unica cosa che manca ai Giardini Hanbury ma che fa parte del paesaggio della mia vita sono Gerusalemme e la Grecia, due luoghi per me molto importanti. Amo viaggiare, ritornare e ritrovare i luoghi geografici della mia vita.

Lei ha insegnato letteratura e lingua italiana in molte importanti università americane e inglesi: quanto interessa la nostra lingua e letteratura nel mondo anglosassone?
La lingua e la letteratura italiana hanno sempre avuto un ruolo molto importante nei dipartimenti di lingue romanze anglosassoni. La poesia italiana è molto amata in ogni sua declinazione da Dante fino a Pasolini. Vi è poi il fenomeno degli immigrati di terza generazione che desiderano riscoprire la lingua e la cultura dei propri avi. Quindi l’interesse, soprattutto in America, è sempre molto alto anche per questa ragione.

Come scrittore e giornalista ha delle figure di riferimento che considera suoi maestri?
Ho avuto la fortuna di avere due grandi maestri che sono Alberto Moravia con il quale ho scritto un libro sulla sua vita, Vita di Moravia, e inoltre è stato lo scrittore che per primo mi ha pubblicato sulla sua rivista, Nuova Argomenti. Dal punto di vista giornalistico certamente il mio maestro è stato Indro Montanelli con il quale ho lavorato per molti anni oltre che a collaborare insieme a lui ad una trasmissione televisiva La Settimana di Montanelli su Telemontecarlo. Migliori maestri in Italia sarebbe stato difficile averne.

Alcuni anni fa, intervistando il Rabbino capo di Roma Elio Toaff, lei gli chiese in che modo il popolo ebraico viveva la duplice condizione della diaspora e di Israele. Le faccio oggi la stessa domanda.
È una condizione molto particolare, per un ebreo che volesse vivere il suo ebraismo in maniera più intensa, non solo nell’aspetto religioso e familiare ma anche di lingua e collettività, grazie a Dio oggi esiste lo Stato di Israele in cui tutti gli ebrei posso eventualmente aderire se lo desiderano. Se poi un ebreo per ragioni familiari o convinzioni intime è legato al paese che gli ha dato i natali o che comunque lo ospita, nessuno gli impedisce di continuare a vivere in quel paese. A Roma per esempio gli ebrei vivono da oltre duemila anni, hanno la loro parlata, il giudaico romanesco, e costituiscono una vivacissima ed antica comunità da sempre parte della città stessa. Tuttavia anche l’idea di Israele ormai fa parte della logica delle nazioni, io sono nato poco dopo la fondazione dello Stato Ebraico e per la generazione successiva e quella successiva ancora è ormai una realtà certa e consolidata a cui potere fare sempre riferimento.

Rimanendo ancora un attimo sul tema della realtà ebraica italiana: quanto è stata importante la componente culturale ebraica per lo sviluppo dell’Italia unita, penso solo ad alcuni personaggi come Ernesto Nathan, Italo Svevo, Adriano Olivetti, Primo Levi, Umberto Saba…
La storia della comunità ebraica nel nostro paese dal 1861 ad oggi è abbastanza peculiare. L’Italia era un mosaico culturale e la cultura ebraica ne è stato uno dei collanti. Pensiamo per esempio alla categoria degli scrittori e all’attaccamento che gli scrittori italiani di religione ebraica ebbero verso il nostro paese e la sua lingua. Nonostante il fascismo, le leggi razziali e i campi di concentramento nessuno scrittore ebreo italiano ha mai smesso di usare la nostra lingua come è successo in altri paesi, anche Primo Levi che pure per sdegno avrebbe anche potuto scrivere in un’altra lingua, invece è rimasto tenacemente legato alla sua lingua natia. E forse questa è anche la ragione per cui non tutti sono andati o decidono di andare in Israele, perché la patria è anche la propria lingua. Gli ebrei italiani poi erano diversi dagli ebrei nordeuropei, non parlavano lo yiddish, e gli altri ebrei nei campi di concentramento non ne capivano la ragione. Primo Levi era giustamente molto orgoglioso di questa peculiarità dell’ebraismo italiano da sempre integrato nel nostro paese che sentiva e sente veramente come la propria patria pur essendo una minoranza. Ma questo non stride con la storia e la società italiana che da sempre è composta da tante differenti minoranze che convivono e insieme contribuiscono a formare il tessuto del paese. Così come la letteratura italiana nell’Ottocento e Novecento è stata creata da tante correnti, scuole e movimenti molto differenti tra loro, così la società ed il paese stesso in cui viviamo.

Lei è considerato uno degli uomini più eleganti del mondo, vale sempre l’adagio di Lord Brummell che la vera eleganza è passare inosservati o oggi è esattamente il contrario?
La vera eleganza è quella morale: fare cose giuste e non vantarsene mi è sempre parso una buona cosa, una buona regola da seguire e quindi in questo senso, credo che il non apparire sia sempre una buona cosa.

Com’è il mestiere di nonno?
Non è un mestiere, bisogna essere degli autodidatti per diventare nonni, si studia e si impara a diventare padri, diventare nonni è un regalo, un meraviglioso regalo, non vi è più la responsabilità diretta della paternità quindi può essere un rapporto molto poetico, magico quello tra nipoti e nonni. Vedere nuovi bambini, i bambini dei tuoi bambini è una sensazione incredibile che fa sentire bene. È poi dai bambini si impara moltissimo con la loro straordinaria forza dell’ingenuità.

Il suo ultimo libro edito da Bompiani, Racconti, raccoglie scritti recenti ma anche passati, è forse un bilancio letterario?
Mi faceva piacere anzitutto utilizzare una tecnica narrativa, un genere letterario fondamentale che in Italia negli ultimi anni è stato poco utilizzato. Grandissimi scrittori e drammaturghi si sono cimentati nel racconto breve. Io sono nato come scrittore di racconti. Il racconto sta al romanzo come il disegno o l’acquerello stanno al quadro ad olio. C’è nel racconto una forza e una tensione espressiva che raramente il romanzo riesce a restituire con eguale efficacia. E poi il racconto si scrive in uno o due giorni mentre il romanzo richiede mesi e a volte anni di gestazione. Questo mio libro in fondo è una sorta di autobiografia attraverso i racconti, alcuni li ho scritti a vent’anni, altri adesso, volevo raccontare e raccontarmi in questo modo che sento particolarmente congeniale.

A cura di Alessandro Bartoli

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