Adriano Olivetti: maestro di un sogno razionale

Intervista a LUCIANO VALLE, direttore del Centro Studi “Ri-abitare la terra e la città”, creatore e coordinatore dei Centri di Etica Ambientale, segretario nazionale dell’Associazione “Etica, sviluppo, ambiente”, membro del Comitato scientifico del Festival dei Saperi di Pavia.

Graziella Arazzi

Rievocare l’enciclopedismo di Adriano Olivetti – il suo agire tra letteratura e tecnica, tra sociologia e finanza – non significa cercare, a tutti i costi, di riattualizzare un modello ma comprendere che l’industria contemporanea può recuperare una strada proficua e innovativa, iniziando a competere – come proponeva l’industriale di Ivrea – con i cosiddetti contesti immateriali. Tra critica esasperata dello sviluppo e teorie demagogiche della decrescita, occorre mettere in rilievo una terza via, che emerge dalla lezione di Olivetti e che comporta la valorizzazione degli strumenti intangibili che circondano la produttività aziendale: brevetti, tipologie comunicative, formazione del personale, portfolio delle competenze, assetto dei nuovi progetti e dei servizi in atto. Da semplici appendici della fabbrica, questi processi si traducono in assi portanti dell’organizzazione del lavoro, misurando la crescita del sistema complesso e sostenendo la partecipazione dei cittadini alle scelte collettive. 

Adriano Olivetti: l’inquietudine nella vita della fabbrica?

“Senza dubbio. Un’inquietudine messianica, che lo porta a uscire dagli schemi generali della produzione industriale. Uno come lui, che proviene dall’impresa e dalla formazione scientifica tutta positivistica del primo Novecento italiano (basti pensare che è un ingegnere chimico, laureato al Politecnico di Torno), ha avuto l’intuizione e insieme il coraggio di aprire le frontiere di una straordinaria ricerca culturale, proprio all’interno di uno spazio definito come quello dell’azienda. Guardando allo sviluppo economico e sociale come a una sorta di Terra promessa, Olivetti si sente chiamato a una vocazione speciale, coniugare il realismo della prassi con il momento utopico della profezia, sempre con la consapevolezza di muoversi tra opposti che, tuttavia, sono in relazione e possono rendere fertile il processo del lavoro. Dal 1941 in avanti, gli ultimi 18 anni della sua vita (muore su un convoglio ferroviario, in viaggio verso Losanna, nella notte del 27 febbraio 1960) vengono dedicati a realizzare l’etica e i valori sociali attraverso l’impresa. Già a metà degli anni Trenta, tuttavia, Olivetti percepisce le angustie del taylorismo, proprio come accade a Simone Weil. Lei lavora in fabbrica, lui avverte l’abisso infernale della struttura produttiva. A stretto contatto con Walter Rathenau, che proponeva la partecipazione degli operai alla vita della fabbrica e dopo la conoscenza, in uno dei suoi numerosi viaggi, dell’australiano Elton Mayo, promotore della psicosociologia del lavoro, Adriano ribadisce la necessità di cambiare le strategie industriali. Anzi, si spinge oltre. Sottolinea, infatti, prepotentemente il legame tra azienda e territorio, tra mondo del mondo del capitale e vita operaia, riconoscendo i limiti del razionalismo di Lenin e Gamici, più vicini al taylorismo di quanto allora potesse apparire”.

L’enorme ricchezza culturale dell’imprenditore di Ivrea non rischia l’effetto dispersione?

“Adriano aveva un obiettivo fisso, uscire dalle barriere della Modernità, dalla banalizzazione grigia della tecnica e ridare alla tecnica nuova linfa per le riforme sociali. Nel 1942, capisce che non si può riformare la fabbrica e rispettare i lavoratori senza avere delineato, in contemporanea, un grande disegno di rinnovamento della società. Le radici culturali di questo imprenditore anomalo? Direi che in Olivetti convivano, senza ostacolarsi, mille rivoli di spiritualità. La madre è valdese, i nonni paterni sono ebrei e socialisti, il padre si converte, in età adulta, al cristianesimo sociniano antitrinitario. Insomma, un oceano culturale che si esprime in quello che Olivetti invoca come riforma dei saperi. Innamorato dell’Oriente ma con lo sguardo ad Occidente, junghiano ma estimatore di uno psicanalista freudiano come Musatti, mette in luce la prossimità tra scienza, mistica, poesia, psicoanalisi, estetica, architettura e urbanistica. Vicino al comunitarismo socialista di Emmanuel Mounier, vive dentro e fuori dal mondo, come sostiene Natalia Ginzburg nel suo ritratto. Negli anni della II guerra mondiale, pensa a fare dell’azienda il motore esclusivo di nuovi processi storici. L’impresa diventa il perno assoluto del territorio. Lo sforzo di Olivetti è far comprendere che la fabbrica, sistema globale che si autoalimenta, non ha bisogno di organizzazioni stratificate e rigide (come i partiti di massa) per promuovere lo sviluppo”.

Dove si scorge maggiormente l’inquietudine di Adriano Olivetti?

“Nell’ansia di volere fare tutto e subito. Pur criticando la Modernità, paradossalmente, possiede la sua medesima fretta. soleva ripetere. Nel presente che è subito futuro vedeva la realizzazione dell’escatologia. Max Weber, pur intravedendo i limiti della tecnica, mantiene verso di essa una posizione di equilibrato rispetto. Olivetti, invece, vuole infrangere la gabbia d’acciaio dell’industria che, a suo avviso – alla pari di un vero e proprio girone infernale – blocca la nascita della bellezza e l’affermazione della virtù. Dovunque sorgano, le sue fabbriche attraversano i mondi sociali, scompigliano le regole della consuetudine. L’azienda collega la comunità locale allo Stato, è il cuore della polis e permette la vera riforma dell’umanesimo e dell’illuminismo, avvicinandoli al pulsare della storia. Un percorso destinato a rifondare la tecnica, facendo dialogare universale e particolare; tra il 1942 e il 43, esule in svizzera, insieme a Luigi Einuadi, Olivetti pensa a ricostruire il Mezzogiorno, a decentrare il modello di Ivrea nelle regioni del Sud, elaborando una progettualità che sia in grado di rispettare le vocazioni mediterranee del Paese. Lo stabilimento di Pozzuoli e l’annesso villaggio, destinato ai lavoratori, sono un documento di un’inquietudine globale, che si esprime sempre nelle forme di utopia concreta, nello spirito di ibridazione e di sistema, in cui la voce della sociologia dialoga con l’urbanistica e le scienze esatte non esitano a scegliere come interlocutori la grafologia e l’esoterismo. Quando è chiamato a presiedere l’Istituto Italiano di Urbanistica, Olivetti riesce a porre le basi di una rinnovata enciclopedia delle scienze dell’uomo, capaci di ascoltare la natura e il sacro. A testimoniarlo è la costruzione del villaggio di La Martella, vicino a Matera, dove impone che nelle case destinate agli operai-contadini ci sia posto anche per le stalle dei loro animali”.

Olivetti, genio incompreso, non solo dall’impresa ma anche dalla politica?

“L’anomalia Olivetti corrisponde alla realtà storica. Il suo modello di comunità locale, in cui i lavoratori partecipano a fondazioni che intervengono nella gestione del capitale della fabbrica, è lontano dai partiti di ogni tempo, direi. Nel 1948, quando fonda il Movimento Comunità, viene avversato tanto dalla Democrazia Cristiana quanto dal PCI. Per l’imprenditore di Ivrea – che Cesare Romiti, in un’intervista a “L’Espresso” non esita a definire ma che il compianto Giovannino Agnelli aveva deciso di assumere come riferimento, una volta alla direzione della Fiat – l’economia deve rispettare le tradizioni locali e accogliere i bisogni del territorio”.

Federalismo contro centralismo, innovazione tecnologica, responsabilità sociale d’impresa: questi termini della contemporaneità si addicono all’universo dell’imprenditore anomalo?

“Direi che ne sono copie sbiadite. Il genio di Olivetti è incommensurabile, come quello di Leonardo e di Einstein. La sua fabbrica è un laboratorio di inquietudine”.

Tra politica e cultura…

“Sì, con tante modulazioni. Nel 1925, antifascista, Olivetti è in macchina con Ferruccio Parri e precede un’altra auto, in cui Pertini e Rosselli portano Turati in salvo, prima a Savona e poi in Corsica. Nella II guerra mondiale, è esule in Svizzera. Poi aderisce al Partito d’Azione. Sul piano culturale, insieme a tanti altri, lo circondano Franco Fortini, Leonardo Sinisgalli, Cesare Musatti. Senza contare Geno Pampaloni che, nel novembre 1948, viene chiamato a dirigere la Biblioteca di fabbrica e ben presto diventa uno dei suoi più stretti collaboratori, coordinando il Centro culturale Olivetti”.

Una formula per sintetizzare le “sensate inquiete esperienze” di Adriano?

“Transmodernità, trarre linfa da tutti i saperi per sostenere l’arduità del presente, la sfida della tecnica. Tommaso Moro e Campanella sono i filosofi di riferimento per l’elaborazione del suo modello organico, opposto al meccanicismo dell’industrializzazione senza etica. Un viaggio lungo, che parte da Goethe e approda a Heidegger e a Foucault, rintracciando le orme del terzo millennio”.

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