Come va il mondo dopo il crollo del Muro di Berlino?

Maurizio Cabona

Il convegno di sabato 21 novembre 2009, a Finale, promosso dal Circolo degli Inquieti,è stata  l’occasione di dire come va il mondo e non come dovrebbe andare. Non si è sentito parlare, per il 1989, di “rivoluzione di velluto” e altre idiozie, di liberatori e oppressori, ma di sistemi di potere e di relative propagande. Sono affiorati frammenti di realtà, non panoramiche di buone intenzioni; attimi di storia, non spiccioli di memoria.

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West Berliner at the foot of the wall talks to East Berliner, November 1962.

Comunismo reale e Gorbaciov

Dov’è il comunismo reale, ora che ce n’è bisogno? Perché si è suicidato, vittima del dissesto economico, vent’anni prima (un’inezia per i tempi storici) che la crisi strutturale del capitalismo desse ragione a Karl Marx?  Mikhail Gorbaciov è vivo. Governerebbe tuttora una Mosca comunista, e i suoi ampi dintorni mondiali, se avesse saputo distinguere Glasnost da Perestrojka. Perché di un necessario arretramento ha fatto una volontaria catastrofe? Lui è il “rinnegato” del comunismo, ben più di Trotzkj; lui il maggior responsabile di aver alterato uno dei più lunghi periodi di equilibrio di potere in Europa. Più che quello di Raissa, devono essere i fantasmi dei morti nelle guerre jugoslave, cecene, ecc. a ossessionarlo.

Eurolandia morirà. E l’Italia?

La pace in Europa durerà tanto quanto l’Ue. Diplomatici ottimisti osservano che i suoi trattati non sono scritti su carta straccia. E’ vero: sono scritti su carta moneta. Nata da tanto denaro, di poco denaro Eurolandia morirà. E il continente dell’inizio del XXI secolo ha aree di tensione coincidenti con quelle dell’inizio del XX secolo, specie sull’Adriatico. Non tutto si ripeterà pari pari. Talora il dramma cederà alla farsa. Ma qualcosa sarà dramma. E allora l’Italia non avrà di fronte i regimi di una volta, tetri, spartani, ma prudenti; avrà di fronte sistemi economici in crisi e popoli ormai disabituati ai sacrifici, quindi inclini a seguire gli avventurieri.  Ci aggrapperemo all’Alleanza atlantica? Se ci sarà ancora… Comunque saremo gli ultimi ad uscirne, sempre in base al principio che un padrone lontano e ricco è meglio di un padrone vicini e meno ricco. Ma gli Stati Uniti sono diventati quasi poveri. Rimangono lontani, attenti solo al petrolio e alle sue rotte, al punto da infastidirsi oltre misura che anche l’Italia ne voglia una per sé… E’ con questo occhio che si può guardare indietro e scorgere il futuro. In Italia pochi libri di storia  – quelli di Franco Cardini, di Alberto Pasolini Zanelli, di Nico Perrone, di Sergio Romano – si sottraggono all’ideologia occidentalista e al piagnisteo pacifista. Lucidità ignora sia le speranze, sia i meccanicismi; lucidità sa che la storia nasce dalla geografia, più che dall’ideologia, e che quest’ultima suggerisce le priorità solo quando il destino non sta bussando alla porta.

Il cinema, espressione dei grandi Stati

Per le masse è piuttosto il cinema – implicita espressione dei grandi Stati – a evocare il passato che prefigura il futuro. Il recente La battaglia dei Tre regni di John Woo (2009) ricorda che due millenni fa la Cina pagò un caro prezzo per restare unita. Se quell’evento torna oggi sul grande schermo, non è un caso: è perché la crescita economica sottopone la Cina a tensioni sociali centrifughe. Chi volesse incentivarle, può farsi un’idea – al prezzo del biglietto d’ingresso in una sala di Roma o Milano – di quale sarà la risposta.   E Hollywood? E’ passato un anno da quando il potere dei democratici si è ristabilito a Washington (a Hollywood non ha mai vacillato), dunque – il cinema ha tempi lunghi di realizzazione – escono ancora film pensati e realizzati in epoca repubblicana. Di opposizione insomma. Ma l’ecologismo dell’imminente 2012 di Roland Emmerich sta per ricongiungere potere politico e soft-power.  Quello sul quale conta un Paese ormai armato oltre necessità e oltre possibilità di usare le sue armi. Il secolo americano è finito, ammette Barack Obama. Ma il tramonto di un’egemonia è l’alba di una guerra di successione. Siamo in un 2009 che somiglia al 1929. La crisi economica c’è, la crisi sociale segue ora, ma gli schieramenti internazionali nuovi non ci sono ancora.

Quel che resta del comunismo

Il ventennale del 9 novembre 1989 è stato celebrato a Berlino con un’applicazione simbolica della teoria del domino, cara alla Washington della Guerra fredda: se un Paese cadrà in mano comunista, ne cadrà anche un altro confinante. La teoria ha funzionato meglio in senso contrario. Mosca lasciò cadere Berlino Est e di lì venne il resto. Si salvarono i governi che non si lasciarono andare. Se c’è ancora una Cina sola, è grazie al saggio carrista di piazza Tien an Men, che non schiaccio il suo antagonista col sacchetto della spesa, ma nemmeno arretrò. Se c’è ancora una Cuba e se non ci sono due Portorico, è perché i cubani, non solo quelli comunisti, ricordano l’embargo, lo sbarco (baia dei Porci), gli attentati terroristici dei primi anni Sessanta, i successivi contagi e carestie provocati da sabotatori, ecc, Se c’è ancora la Corea del Nord, è perché i coreani del nord, non solo quelli comunisti, ricordano la prima grossa guerra internazionale del dopoguerra e il mezzo secolo di attriti successivi. Avere la Bomba e i missili che la portano li aiuta solo a ricordare meglio…

Nuovi Muri e nuovi Film

Si celebra la caduta del Muro di Berlino, ma restano in piedi i Muri fra Israele e Territori Occupati, a Cipro fra greci e turchi, i Muri fra Mauritania e Algeria, fra Myanmar e Thailandia e altri, meni noti. L’altroieri, in tv, con un Bruno Vespa fremente, Walter Veltroni ha detto che nel 1989 aspettava solo la fine del comunismo, ma non ha detto perché lui fosse iscritto al Pci. Per i conservatori, la caduta di quel Muro – che s’è sentito bisogno di far ricadere –  è stata davvero un evento di cui essere fieri? Ricordo ancora la faccia di Indro Montanelli quel giorno del 1989. Era cupo. Aveva ragione di esserlo, anche se lui pensava solo che, con quello della Dc, era il suo ruolo a finire.  Il declino avviato dal ’68 s’è aggravato, al punto che oggi perfino Kohl e Bush sr. paiono statisti di valore, non solo politici fortunati. Nessun film li ha ancora ritratti. Anzi, la rievocata fine della Guerra fredda ha rimesso in circolazione (alla Mostra di Venezia e Festival di Roma, per esempio) film e personaggi della medesima. I polacchi portano la bandiera, con Katyn di Andrzej Wajda e Popieluszko di Rafal Wieczynsky. Se la strage russa di polacchi nel 1940 è evento della seconda guerra mondiale, il suo uso propagandistico è più da post Guerra fredda che da Guerra fredda. Perché? Perché la Polonia è, con la relativa rinascita economica russa, tornata area di forte attrito. Quanto a Popieluszko, ognuno ha il suo caso Matteotti.

Le responsabilità del cinema italiano

L’Italia è ancora priva di memoria bellica, perché non ha ancora avuto esigenza di riaverla. Perché l’ha avuta, eccome. Nel decennio della crisi con gli inglesi per Trieste (un attrito simile, ma più lungo e doloroso hanno avuto, sempre con gli inglesi, i cinesi per Hong Kong), non c’era quasi film che tacesse la questione adriatica. Finite le questioni territoriali, la Dc – fatta di gente concreta come De Gasperi e Andreotti – si risparmiò sulle questioni ideologiche anticomuniste, lasciando prima al Psi, poi al Pci, di giustificare – dalla fine degli anni Cinquanta – gli “equilibri più avanzati” che si profilavano.  Oggi il cinema nostrano, che difende ogni immigrazione e legittima ogni immigrato, è erede di questa presunta nobiltà d’animo, che vela l’ignobile colonialismo importatore fra i patrii confini un lumpenproletariato buono a ogni uso. Un giorno si scoprirà che sono stati gli stessi a sostenere, anche col cinema, l’ideologia dei diritti dell’uomo e qualche area irresponsabile della xenofobia: c’è un Muro anche a Padova, lo si ricordi. Al capitalismo serve una certa quota di disoccupati per ridurre gli stipendi. Quando i consumi saranno così calati da ridurre i profitti più dei costi, si esigerà il rialzo dell’occupazione.

Questa dei cicli economici – direbbe Kipling – è un’altra storia. Ma che spiega molto, direbbe Marx.

 

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