Filosofia inquieta o inquietudine dei filosofi: intervista a Duccio Demetrio

Graziella Arazzi

Duccio Demetrio è docente di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche autobiografiche alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Presidente della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo), è direttore della rivista semestrale “Adultità” e garante scientifico del Centro di educazione degli Adulti “Ettore Gelpi”.  Si occupa di pedagogia sociale, educazione permanente, educazione interculturale ed epistemologia della conoscenza in età adulta.  

Il professor Demetrio, che incontriamo nel suo ufficio alla Università di Milano Bicocca, esordisce ricordando le sue radici ligustiche e la sua casa nel Parco delle Cinque Terre.

Inquietudine

Professore, in che modo la filosofia può aiutarci a considerare l’inquietudine, spingendoci oltre le strade battute dal senso comune? 

Da un punto di vista filosofico, si tratta di depurare il termine inquietudine da tutto ciò che lo riconduce a versioni di carattere psicoanalitico. In questo contesto, inquietudine è sintomo o presagio di altre manifestazioni che perturbano l’armonia pubblica o familiare e viene considerata una malattia. Oggi, prevalentemente, si dà questa versione, legata a stress, frustrazioni, vicende e motivazioni dell’esistenza. Se assumiamo la parola in questa accezione possiamo sostituirla con ansia, attese frustrate, desideri delusi. C’è tutta una microletteratura delle relazioni che dà conto di questi aspetti. Ma lo sguardo filosofico porta altrove. Spetta alla filosofia aprire alla vera essenza dell’inquietudine, che può essere definita come costante tensione al pensare e all’agire etico di cui la filosofia si è sempre occupata. Teofrasto e lo stesso Aristotele ci forniscono i primi esempi di profili di inquietudine. Inquietudine è l’esperienza di autoanalisi che la filosofia conduce su di sé. Manifestazione di inquietudine è la ricerca del senso e dell’essenza della vita, il tentativo di decifrare la verità umana, pur nella sua fragilità e debolezza. Il gesto filosofico costitutivo, attraversare il mondo in cui si è, è già una dimensione di autentica inquietudine. La filosofia, se non vuol  ridursi a dogmatismo o a teologia, è costantemente pensiero della vita e del suo limite, riferimento alla morte, alla perdita, all’assenza. Non può esserci una filosofia quieta. Sempre si muove un pensiero che non si accontenta, che non va alla ricerca di facili approdi, sempre parziali, sempre soggettivi. La filosofia nasce quando si prende in consegna l’inquietudine, ci si accorge che il significato della vita è legato ai suoi limiti e ai suoi confini. Una cultura che sfugge all’inquietudine, nella facile ricerca del consenso, una cultura che non si confronta con il male, con il negativo, non solo evita la conoscenza ma annulla anche i sentieri dell’etica.

Come vengono considerati gli spiriti inquieti nella storia del pensiero?

Nei miti abbondano le figure di inquieti, da Prometeo a quel giovinetto ardito che è Icaro, a Ulisse. Spesso però le figure letterarie dell’inquietudine non fanno altro che confermare che la storia tende a cancellare e a rimuovere la tragedia dell’esistenza, percepita invece dall’inquieto con estrema lucidità e consapevolezza. Il destino degli inquieti è quello di essere sempre puniti. Nella Bibbia,  Caino, che è sicuramente interprete dell’inquietudine tragica, fa una brutta fine. Dal mondo greco al Cristianesimo, la domanda di senso, che compare all’improvviso e  che interrompe un regolare e continuo percorso di vita adulta, viene costantemente arginata e controllata.

E’ possibile definire le categorie dell’inquietudine?

L’inquietudine è una continua oscillazione tra significato della vita, percezione della morte, consapevolezza della perdita e dello scorrere inesorabile del tempo. Nietzsche rappresenta la posizione filosofica inquieta per eccellenza, quel portarsi più appresso l’inquietudine che si raggiunge decretando la morte di Dio. Esistenzialisti prima dell’esistenzialismo, Marco Aurelio, Agostino, Montaigne, Schopenhauer e Novalis si concentrano sui nodi fondamentali dell’inquietudine: l’incompletezza umana, la fallacia dell’uomo che, tuttavia, non rinuncia a raggiungere la verità ultima e l’irreversibilità del tempo. In tempi più vicini a noi, Miguel de Unamuno e Camus si attardano sulla tragicità umana che non riesce a vivere l’esperienza del dolore con minor strazio.

Anima Inquieta

Filosofia, saggezza e inquietudine …

Lo sguardo filosofico non può cercare la pacificazione a tutti i costi. Nel momento in cui l’inquietudine fugge via,  la filosofia cessa di essere tale.  

Una sollecitazione, la sua, a esplorare l’anima inquieta

Direi di sì. Uno strumento di ricerca è senz’altro costituito dalla scrittura autobiografica. La pratica della scrittura di sé va assunta con ponderazione e non può essere considerata una via pacifica alla cura di noi stessi. La scrittura autobiografica, anzi, è una particolare sindrome filosofica che accende l’inquietudine, la coltiva, le rende onore. Non c’è scrittore, non c’è romanziere che non conosca l’inquietudine come tensione verso la narrazione della propria storia. Con la scrittura autobiografica entri nel campo del limite, ti accorgi dei momenti perduti, ingaggi una lotta con l’oblio, ti incontri con esperienze di cui non puoi liberarti e che ancora durano dentro il pensiero, incontri l’inquietudine insomma, non solo rispetto alla tua vita ma al mondo in generale.

La scrittura autobiografica

La scrittura autobiografica, dunque, diviene emblema dell’agire inquieto?

Senza dubbio. Scrivere avviene all’insegna del limite, impone correzioni, pause, revisioni. Se inizi a scrivere di te stesso, intraprendi un percorso circoscritto e poi ti accorgi che, entrando nello stile di vita della scrittura, entri nell’illimitato, nell’impossibilità di darti dei confini. La scrittura ti prende e trascina, ti fa camminare senza cercare facili oasi di quiete.

Il percorso che ha descritto  si concretizza nelle attività della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Quali sono le caratteristiche dell’Accademia, che vede aumentare ogni anno il numero degli iscritti?

L’esperienza coinvolge circa 350 persone che vivono fortemente l’emozione di raccontarsi senza freni inibitori, senza confini, scoprendo che la pratica della scrittura autobiografica non restituisce pacificazione ma il contrario. Ti metti a scrivere e si dischiude la tua impotenza. Ti addentri in ricordi e memorie e si apre la foresta illimitata dei significati. A differenza del percorso psicoanalitico, che pretende di curare a tutti i costi, la cura della scrittura è controproducente. Chi scrive di sé si ammala ancora di più di inquietudine.

Come definire in breve questa dimensione?

Scrivere di sé per imparare a diventare soli, scrivere per tracciare un percorso in cui imbattersi nella propria solitudine inquieta. La pratica della scrittura facilita aforismi, metafore, analogie. Emergono dagli stessi vissuti, che cercano di trovare nei giochi linguistici un ancoraggio per ragionare, sostare e ripartire.

Anghiari

Che cosa accade ad Anghiari?

Si sta costruendo una comunità di filosofi inquieti. Al primo livello praticano la scrittura autobiografica, al secondo stage la scrittura autoanalitica, maestro il detto di Marco Aurelio (”Qualcosa che ti riguarda molto da vicino”). In un terzo momento, svolgono un tirocinio su parole provocatorie, mai univoche e dense di risonanze. In questi giorni  sto ricevendo e-mail in cui i corsisti di Anghiari si cimentano su termini come perdono, interstizi, ombra, crisalidi, frammenti. Scrivere incoraggia a esplorare la quotidianità, a visitare dettagli e particolari mai visti.  

Tra le sue opere, quale interpreta in modo inusuale l’essenza dell’inquieto?

Oserei dire tutte, ma mi limito a citare l’ultima, in uscita in questi giorni da Raffaello Cortina Editore e dal titolo La vita schiva. Il sentimento  e le virtù della timidezza. L’inquieto può essere rappresentato proprio dal timido, che si ritrae dal  mondo perché non si sente pienamente al mondo. Il timido, nei lunghi tempi di meditazione solitaria che lo proteggono, pensa di più, legge di più, scrive di più di ogni altro, visitando tutte le sfumature dell’inquietudine.

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