Ha ragione Don Abbondio?

Anna Segre

Il coraggio, uno non se lo può dare

Chi non ricorda la famosa frase dei Promessi sposi con cui Don Abbondio si giustifica di fronte al Cardinale Federigo Borromeo per non aver celebrato il matrimonio di Renzo e Lucia? Frase spesso citata e ritenuta condivisibile. A molti lettori tutto sommato Don Abbondio sta simpatico: in fondo è un uomo normale che si trova senza sua colpa in una situazione più grande di lui. Manzoni invece dimostra chiaramente di condividere il giudizio severo del Cardinale. E’ vero che spesso il lettore conosce i pensieri del curato e vede le cose dal suo punto di vista, ed è anche vero che spesso il personaggio è rappresentato in modo comico, eppure se ci facciamo caso a volte il suo comportamento è profondamente inquietante.

Un tappeto in testa

Prendiamo per esempio uno dei momenti chiave delle vicenda, all’inizio dell’ottavo capitolo, quando Renzo e Lucia sono penetrati in casa del curato per cercare di celebrare il matrimonio a sorpresa. Un punto che a me, fin da quando ho letto per la prima volta il romanzo, ha sempre fatto venire una rabbia tremenda. Renzo è già riuscito a dire “Questa è mia moglie”, Lucia dice “E questo…”; basterebbero tre parole, dieci lettere in tutto, “è mio marito”, perché i due siano sposati e possano scappare insieme; la persecuzione di Don Rodrigo sarebbe vanificata e tutti i guai che accadranno nei restanti tre quarti del romanzo evitati. Don Abbondio potrebbe raccontare senza problemi di essere stato ingannato e quindi di non avere alcuna responsabilità per l’avvenuto matrimonio, e sarebbe la verità. Invece niente di tutto questo, perché il nostro curato agisce con una velocità e una decisione davvero incredibili per uno che si dichiara non coraggioso.

Don Abbondio vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzioneLa poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: – e questo… – che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava … Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno.

Una scena di violenza autentica: un uomo che non si fa problemi a gettare un tappeto addosso a una ragazza fin quasi a soffocarla non è poi così innocuo e simpatico come appare all’inizio del romanzo. Viene da pensare che il curato più che non coraggioso sia semplicemente uno dei tanti forti con i deboli e deboli con i forti. Ma c’è di peggio: stupisce che Don Abbondio abbia il coraggio di fare una cosa del genere in presenza di tre uomini giovani, con ogni probabilità più forzuti di lui, uno dei quali fidanzato della ragazza, già molto in collera con il curato e non particolarmente mansueto (come sappiamo dai suoi propositi omicidi nei confronti di Don Rodrigo). Un vero non coraggioso sarebbe così atterrito dal pericolo immediato da dimenticare le minacce dei bravi. Insomma, la scena dimostra che Don Abbondio quando vuole il coraggio se lo sa dare eccome. Solo che lo usa per rendersi complice di un sopruso.

Un esempio ancora attuale

Molto famosa anche la riflessione del narratore che segue l’episodio:

In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
 

Chiaramente la conclusione è antifrastica e serve per sottolineare che dal diciassettesimo al diciannovesimo secolo le cose non erano cambiate affatto, così come non sono cambiate nel ventesimo e nel ventunesimo: in ogni epoca le vittime e gli oppressori non sono sempre quelli che sembrano. E allora come oggi bisogna fare attenzione a quello che i personaggi dicono di se stessi perché non sempre sono attendibili.

Dai tempi di Manzoni a noi non sono mancati esempi di questo genere: oppressi, perseguitati, vittime di ogni genere di soprusi hanno trovato spesso sul loro cammino persone pronte a farsi complici degli oppressori invocando a propria discolpa la mancanza di un coraggio che invece sanno tirare fuori facilmente quando vogliono. Per fortuna esistono anche i veri non coraggiosi, quelli che non sono capaci di rendersi complici di un crimine e che non se la sentono di chiudere gli occhi di fronte alle sofferenze altrui.

E’ vero che il coraggio uno non se lo può dare, ma che cosa comporti avere coraggio e cosa comporti non averne non è sempre così evidente come può sembrare in apparenza

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