I figli di Israele dissero loro: “Oh! Fossimo noi periti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando sedevamo dinanzi alle pentole di carne, quando mangiavamo pane a sazietà! Mentre voi ci avete condotti in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Esodo 16, 2-3)
Gli ebrei sono appena stati miracolosamente liberati dalla schiavitù in Egitto, hanno visto il Mar Rosso aprirsi davanti a loro e, anziché gioire di tutto questo, si lamentano in continuazione! Ancora più strano, poi, che rimpiangano la schiavitù, le percosse, le ingiustizie. In realtà il testo biblico ci descrive in termini sorprendentemente attuali un l’inquietudine di fronte al futuro. Quello che spaventa è la novità; si preferisce una sofferenza nota ad una che non si conosce. Il passato è tranquillizzante, anche quando è terribile, mentre il futuro fa paura anche se è luminoso.
Inoltre il racconto dell’Esodo ci offre l’immagine di un altro fenomeno altrettanto attuale: la paura di assumersi le proprie responsabilità. Ancora di più questo aspetto è sottolineato dai commenti rabbinici all’Esodo: per esempio, nel capitolo 3 Mosè, su ordine del Signore, raduna gli anziani per andare dal Faraone ma poi, pochi versi più avanti (5, 1), si dice che si presentano solo Mosè e suo fratello Aronne. E gli anziani? I nostri rabbini dissero: gli anziani dapprima li seguirono, ma poi se la svignarono furtivamente uno per volta, due per volta, e sparirono. Quando [Mosè e Aronne] raggiunsero il palazzo del Faraone, nessuno di loro era rimasto. Questo è testimoniato dal testo: “Mosè e Aronne si presentarono poi dal Faraone”. Ma dov’erano gli anziani? Se l’erano svignata.
La liberazione porterà quegli schiavi incapaci di assumersi le proprie responsabilità a diventare un popolo, con le proprie leggi, ma è un passaggio che a molti fa paura. E’ la stessa paura del futuro che porterà successivamente gli esploratori inviati in perlustrazione a denigrare la terra promessa: meglio vivere nel deserto con la manna fornita quotidianamente dal cielo che entrare nella terra, coltivarla, affrontare le difficoltà.
Il politologo americano Michael Walzer, nel suo fondamentale libretto Esodo e rivoluzione, del 1985, analizza appunto la schiavitù e la liberazione dall’Egitto come racconto paradigmatico sulla base del quale sono stati descritti per secoli nella cultura occidentale i processi di liberazione. Molti rivoluzionari nel corso della storia hanno citato il testo biblico, assumendo l’Esodo come metafora. Walzer arriva a ipotizzare che proprio dal racconto dell’Esodo, con la lunga marcia del popolo attraverso il deserto verso la terra promessa, derivino termini come “progresso” e “progressismo” e l’immagine dell’umanità che avanza verso un futuro migliore. Il libro analizza le varie fasi del racconto biblico offrendo spunti di riflessione molto interessanti, che ci possono aiutare a comprendere meglio l’atteggiamento della cultura ebraica, e non solo, di fronte alla storia.
La terra promessa, nota Walzer, non è la perfezione, non è fuori da questo mondo: è solo una terra migliore dell’Egitto dove il popolo dovrà darsi da fare, osservando le leggi e praticando la giustizia, per costruire una società non perfetta ma almeno il più giusta possibile. A questa vicenda tutta terrena si affianca però nella cultura ebraica un’altra speranza, la venuta del Messia, che porterà a un’epoca di pace per l’intera umanità. Talvolta, però, l’attesa si colora di inquietudine: c’è infatti l’idea che la venuta del Messia sarà preceduta da grandi sconvolgimenti, chiamati appunto le “doglie del Messia”; per esempio si immagina (sulla base dei capp. 38 e 39 di Ezechiele) una terribile guerra contro due potenze chiamate Gog e Magog. Questa immagine delle “doglie del Messia” è così inquietante che nel Talmud si attribuisce a tre diversi rabbini il detto “Possa venire il Messia, ma che io possa non vederlo!”
Walzer nota la contrapposizione tra due modelli: da una parte la “politica dell’Esodo”, che immagina una marcia faticosa a piccoli passi, per costruire un mondo più giusto ma sempre immerso nella storia, con tutte le sue imperfezioni; dall’altra la “politica del Messia” che prevede invece una palingenesi, una rigenerazione totale, per arrivare ad un’epoca che di fatto è fuori dalla storia; è la politica del “tutto e subito” che spesso si traduce in violenza, perché c’è chi ritiene che la venuta del Messia si debba affrettare attraverso azioni eccezionali, adatte a tempi eccezionali. Da una parte abbiamo una concezione della storia dinamica, secondo la quale è possibile costruire a piccoli passi il proprio futuro, dall’altra parte c’è una storia statica, che muta solo attraverso l’intervento divino, che però può essere accelerato da azioni umane volte a “forzare il fine”; chiaramente la seconda è meno incline ai compromessi.
Per la verità la politica dei piccoli passi non è incompatibile con un progetto globale a lungo termine, così come si può indicare la meta senza necessariamente bruciare le tappe intermedie, e infatti Walzer ammette che nella storia ebraica la differenza è un po’ smussata perché anche il messianismo prende la forma dell’Esodo. Comunque sia, mi sembra che la paura del futuro sia più caratteristica della “politica del Messia”, mentre la “politica dell’Esodo”, pur non offrendo soluzioni miracolose (anzi, proprio perché rimane con i piedi per terra), sia più ottimistica. Il futuro può essere un’opportunità: i problemi si possono gradualmente risolvere, si può costruire pezzo per pezzo un mondo migliore. Tutto questo, però, a due fondamentali condizioni: che si abbia la capacità di procedere a piccoli passi, senza forzare i tempi e aspettarsi soluzioni miracolistiche, senza illudersi che sia un cammino facile; e, ancora più importante, che ciascuno sia disposto ad assumersi le proprie responsabilità perché la marcia ha bisogno della collaborazione di tutti. La strada che porta alla terra promessa attraversa il deserto – conclude Walzer – L’unico modo di raggiungerla è unirsi e marciare insieme.