Il limite della parola

Gino Russo
Ad Auschwitz la parola ha trovato il suo limite: è rimasta vittima dei fatti. Le squadre dei Sonderkommando sono state annichilite dal loro limite di parola e solo la visione, attraverso l’immagine fotografica rubata, ha potuto fissare per sempre quello che era la parvenza dell’inimmaginabile. “Verum ipsum facto” scriveva Giambattista Vico.
Fatti e parole stanno in rapporto in base alla verità: “verum ipsum factum”.
Il limite del pensiero è l’oggetto. La metafisica si è arresa.
Il limite della parola è la verità. Orizzonte mobile del mondo.
Il limite dell’azione è il fatto. Ogni cosa si muove dispensando/si vita e morte.
Il limite di Dio è l’uomo. Il confine estremo della luce dell’Uno è la materia vivente rammenta Plotino nelle Enneadi.
E non è forse scritto nella Genesi che l’uomo fu creato per ultimo? Oltre all’uomo cosa poteva ancora creare Dio?
Il limite dell’uomo è lui stesso così come il limite del limite.
L’uomo limitato non si pone limiti al suo essere limite compiendo in ciò una operazione inversa a ciò che il limite dovrebbe contenere e circoscrivere.
E il presocratico Protagora non ammoniva forse che l’uomo è misura di tutte le cose. Di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono?
Quando i limiti arrestano le parole si ha l’ascolto, la visione. Quando i limiti producono i fatti si ha la forma e il percorso della storia. Fatti e parole stanno in rapporto in base alla verità. “Verum ipsum factum” scriveva il grande Giambattista Vico.
I fatti non negano la verità ma le parole si. Un fatto prima di tutto si mostra. La parola può solo esprimere, forse illustrare. I fatti non necessitano di parole, si compiono. Le parole per compiersi devono trasformarsi in fatti.
Le parole per divenire fatti, occorre vederle. Senza lo sguardo le parole non diverranno mai fatti.
Le squadre dei Sonderkommando e il loro limite di parola.
E’ questo, che ha preoccupato di più tutto, alcuni membri del Sonderkommando, la squadra di prigionieri, che ad Auschwitz lavorava ai forni crematori.
Un caso emblematico di quanto a volte le parole siano impotenti, annichilite dal loro limite di parola, che non riesce neanche a svegliare la più semplice immaginazione.
Le squadre dei Sonderkommando, che gestivano a mani nude le sterminio di massa in vista della soluzione finale, furono costituite nel luglio del 1942.
Il loro lavoro era un massacro nel massacro. Manipolare la morte dei propri simili, uccisi a migliaia. Essere testimoni degli istanti finali. Mentire fino all’ultimo ai compagni che entravano nelle camere a gas. Riconoscere parenti e conoscenti avviati alla morte senza proferire parola. Veder entrare uomini e bambini nelle camere a gas e sentirne le urla, i colpi, le agonie.
Attendere! E poi raccogliere di un tratto l’indescrivibile pila umana, una colonna di basalto fatta di carne che si rovesciava all’apertura delle porte.
Tirare via i corpi a uno a uno, lavare via tutto il sangue, tutti gli umori, tutta la materia purulenta accumulata. Estrarre i denti d’oro, frantumare le ossa, e mantenere i forni in funzione giorno e notte per tutti i giorni…..
La disperazione di questi gruppi era totale. Chi ha potuto vederli l’ha descritti come smorfie folli.
Come informare il mondo delle atrocità che si commettevano laggiù?
Nei paesi democratici si sapeva, ma non si poteva credere, le parole non potevano essere vere, non erano fatti, erano semplicemente inimmaginabili.
Questa restava la nostra principale preoccupazione dice Filiph Muller. Testimoniare l’orrore e l’ampiezza del massacro.
Fotografieren verbotten: la preoccupazione di non lasciare testimonianze visive.
Nei campi, su ogni lato delle siepi e dei muri, c’era scritto Fotografieren verbotten, e la maniacale preoccupazione di non lasciare testimonianze visive di quello che si stava consumando è dimostrato dalla distruzione degli archivi del campo a guerra persa.
Un giorno la resistenza polacca chiese ai prigionieri se era possibile far pervenire delle fotografie. Il gruppo si attivò. Un operaio civile riuscì a consegnare una macchina per scattare poche immagini.
Il tetto del crematorio V fu danneggiato intenzionalmente in modo che alcuni membri furono inviati dalle SS a ripararlo
Nascosto dentro un secchio, l’apparecchio fotografico fini nelle mani di un certo Alex, che era a lavorare al pianoterra. Per riuscire a estrarre la macchina dal secchio, sistemare il visore, avvicinarla al viso e scattare la prima immagine Alex ha dovuto nascondersi nella camera a gas appena svuotata dai cadaveri. Se lo avessero visto di lui non ne sarebbe rimasta traccia così come neanche dei macabri rituali della morte industrializzata.
Le immagini di una seconda inquadratura mostrano quello che un sopravvissuto ebbe poi a descrivere come lavoro quotidiano degli altri componenti della squadra. Strappare cadaveri dalla massa di corpi, trascinarli e buttarli nella fossa di incinerazione da dove il “crepitio del grasso, odori, e la materia umana si raggrinzivano nell’aurea di un fumo denso e nauseabondo”1.
Altre due immagini sono poi state scattate che nei negativi sono risultate solo ombre tremolanti che avanzano verso la tomba.
Alex, rientrato al crematorio restituisce la macchina a David il quale ripone l’apparecchio nel secchio. L’operazione è durata non più di 15 minuti. Il pezzo di pellicola sarà poi estratto dalla macchina e riportato al campo centrale da cui partirà per la Polonia a mezzo di una impiegata della mensa che lo trasporterà dentro il tubo di un dentifricio.
Ad Auschwitz la parola ha trovato il suo limite.
La parola si è spenta ad Auschwitz. Ha trovato il suo limite. E’ rimasta vittima dei fatti, che con essa non si potevano mostrare. Solo la visione, attraverso l’immagine fotografica poteva flebilmente fissare per sempre, su un insignificante pezzo di carta, quello che era la parvenza dell’inimmaginabile. Un dono al mondo inebetito dalle parole che non mostravano.
Si pensa che la parola sia illimitata quanto il pensiero. Ma alberga la verità nell’illimitato e cieco proferire privo di immagini? Non è forse più prossimo al vero ascoltare le urla rivolgendo lo sguardo ai fatti che si mostrano? Non è forse il microfono, che amplifica le parole, il feticcio, che ciascuno, nel mondo d’oggi, brama e se può, brandisce come una spada per compiere massacri sulla verità dei fatti? E quando il fatto ritorna, la parola, forse non si smarrisce? Essa va sempre oltre i fatti, oppure non li raggiunge mai. Per la parola il fatto è incontenibile.
1- dal racconto di George Didi-Huberman in Immagini malgrado tutto, Cortina editore. 2005
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