In Paradiso non si lavora – Le conclusioni del sociologo professor Domenico De Masi

Claudio G. Casati

Secondo il professor  De Masi, docente di sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, è necessario un cambiamento di prospettiva, una rivoluzione mentale che proponga all’uomo un nuovo modo di considerare la qualità del lavoro e della vita. Oggi, grazie alla tecnologia, la maggior parte del lavoro esecutivo viene svolto da macchine, la vita si è allungata e disponiamo di più tempo libero, eppure poco o nulla è mutato nella organizzazione del lavoro. Perché continuare ad applicare, a una forza lavoro ormai scolarizzata e autonoma, le regole pensate oltre cent’anni fa per maestranze analfabete e portatrici di pochi, elementari bisogni di sopravvivenza?

In nessun paradiso si lavora

«Noi abbiamo inventato l’aldilà circa 90.000 anni fa. Siccome nessuno c’è stato e non abbiamo prove in contrario, ognuno ci ha messo quello che gli faceva comodo, quello che gli manca nell’aldiquà. Qualsiasi poveraccio, diseredato, qualsiasi “sfigato”, poteva immaginarsi che poi nell’altra vita sarebbe stato ricompensato con delle cose bellissime. Infatti, leggere i contenuti del paradiso, ci sono molte storie sul paradiso e ve le consiglio perché sono esilaranti, è interessante perché ci raccontano cosa mancava in una certa epoca storica e che cosa gli esseri umani volevano. In alcuni paradisi si prega, in altri si passeggia … in nessun paradiso si lavora. Questo significa che l’aspirazione umana non è stata mai il lavoro, altrimenti che ci voleva a riempire i paradisi di catene di montaggio? Non vi sto a raccontare cosa si fa nei paradisi maomettani, altrimenti vi convertite immediatamente».

La società post-industriale

L’Italia e paesi dell’OCSE sono passati, in una cinquantina d’anni, da una società prevalentemente industriale, centrata sulla produzione in grande serie di beni materiali (frigoriferi, televisori, automobili…) a una società prevalentemente post-industriale  fondata sulla produzione di beni immateriali. I beni immateriali sono le informazioni, i simboli, i valori e le estetiche. Il valore nelle organizzazioni odierne risiede nelle idee delle persone che ci lavorano, nelle relazioni con i clienti e i fornitori, nei database, nella cultura dell’innovazione, nella qualità dei processi interni. «La cosa è chiarissima all’uomo della strada. Se voi aveste chiesto a un milanese cinquant’anni fa chi era la persona più importante della città, vi avrebbe risposto Falk, produttore di acciaio, o Pirelli, produttore di pneumatici. Se chiedete oggi a un milanese per strada chi è la persona più importante della città, vi risponde Krizia, Armani, Berlusconi, Trussardi, l’Arcivescovo, il Procuratore Generale. Vi dice Tronchetti Provera ma non più perché fa i pneumatici, ma perché ha la Telecom, giustamente».

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Tripartizione dei paesi

A questa trasformazione, sui prodotti, è seguita una tripartizione per quanto riguarda i paesi. I paesi del primo mondo si sono specializzati e hanno acquisito il monopolio nella produzione di idee; i paesi del secondo mondo stanno acquisendo il monopolio nella produzione di beni materiali; i paesi del terzo mondo sono, purtroppo, sempre più emarginati.
I paesi più ricchi, con PIL pro-capite annuo tra 25-45.000 US$ (Italia 2007: US$ 30.365), tendono a produrre beni immateriali attraverso la scienza che si traduce in brevetti e non più beni materiali attraverso fabbriche, che rendono poco e inquinano molto.
«Il 60% dei prodotti giapponesi sono fatti su brevetti americani, questo significa che noi  compriamo un prodotto giapponese, paghiamo i giapponesi ma una parte di quei soldi vanno a finire alle royalties di Stanford e del MIT».
La produzione manifatturiera si va spostando verso il secondo mondo dove il lavoro costa molto di meno, attualmente rappresentato da BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), Taiwan, Singapore, Vietnam, ecc. «Il lavoro manifatturiero diventerà marginale come lo è diventato il lavoro agricolo. Rimane la produzione di idee attraverso l’estetica, la qualità della vita, il benessere e la produzione scientifica. Noi in produzione scientifica non siamo un granché e secondo me è difficile che potremo, con questa Università scassatissima, inseguire altri che sono molto più avanti di noi».

Lo stress manageriale

Le imprese, soprattutto quelle private, hanno fama di macchine strizzacervelli dove la grande maggioranza dei colletti bianchi è costretta a restare in ufficio fino a tarda sera per smaltire i propri carichi di lavoro, eccessivi per definizione. Nella maggioranza dei casi questo lavoro straordinario non retribuito acquista tutto il sapore di un sacrificio spontaneamente offerto alla propria azienda in segno di fedele integrazione e con la speranza di ricavarne vantaggi di carriera. In realtà, i carichi di lavoro generalmente richiedono un numero di ore giornaliere minore di quelle contrattuali e assai minore di quelle reali. «Lo stress manageriale esiste, ma non dipende dal super-lavoro bensì dalla frustrazione per avere poco da fare e, nello stesso tempo, per dover dimostrare di essere indaffaratissimi».
La prima causa di questo paradosso è di ordine storico: l’assillo per gli orari si consolidò nelle vecchie aziende manifatturiere dove la maggioranza dei lavoratori era costituita da operai che in tot minuti producevano tot pezzi. Per comodità organizzativa, i metodi di controllo quantitativo furono estesi agli impiegati che svolgevano centinaia di pratiche al giorno, tutte uguali. Sempre per comodità organizzativa, anche il lavoro manageriale, che produce idee e non bulloni, è trattato come se la sua produttività fosse direttamente proporzionale al tempo trascorso tra le quattro mura dell’ufficio.
La seconda causa è di ordine tecnologico: le macchine automatiche hanno ridotto il tempo necessario per produrre i bulloni; le macchine elettroniche hanno ridotto il tempo necessario per produrre e per implementare le idee. Ciononostante, l’orario che i manager trascorrono in ufficio è rimasto immutato in ossequio alla loro natura conservatrice.
La terza causa è di ordine culturale. Fin dai primi giorni della loro assunzione in azienda, i manager sono sistematicamente sottoposti ad un rito di iniziazione al lavoro prolungato, basato sul falso mito che la futura carriera è legata alla quantità di tempo extra-orario che egli è disposto ad offrire al proprio capo. Per molti manager – che mitizzano il lavoro dell’ufficio come “virile” e prestigioso, mentre disprezzano la vita domestica come banale, degradante, “femminile” – è sempre meglio prolungare la frustrazione quotidiana dell’overtime che non ridursi alle occupazioni casalinghe e alla cura della famiglia. «Così, man mano, essi smarriranno il gusto del tempo libero, perderanno potere in casa e ne acquisteranno in azienda, dove troveranno rifugio a tempo pieno e saranno pagati quasi esclusivamente per farsi reciproca compagnia. Come diceva Longanesi, per tutta la vita terranno il ritratto dei figli sulla scrivania e solo sul letto di morte verranno a sapere che una parte di essi non gli apparteneva».

Ozio Creativo

Per gli antichi romani il termine otium non significava “dolce far niente”, bensì un periodo libero dagli impegni politici e civili nel quale era possibile aprirsi alla dimensione creativa. Domenico De Masi ha elaborato il concetto di Ozio Creativo che, nella società postindustriale assume il ruolo del protagonista, sia nel lavoro che nel tempo libero. Oggi che la maggior parte della fatica manuale e di routine è eseguita dalle macchine, ci è richiesto sempre più di essere creativi e fantasiosi. Superate le rigide distinzioni tra lavoro e vita personale, razionalità ed emozione, marciamo verso un futuro in cui, grazie alla tecnologia, potremo riappropriarci del nostro spazio domestico restando in contatto con il resto del mondo.

Siamo fortunati

Nessuno di noi è nato e vissuto nel Sael o opera nel Mozambico. Siamo in un paese che, fra 193 paesi al mondo, è fra i primi 30 dell’OCSE, cioè tra i paesi più industrializzati ed è tra i primi otto del G8. «E’ un paese che non ha molte materie prime, ha una superficie piuttosto esigua (un ventottesimo del Brasile, un trentesimo degli Stati Uniti, un cinquantanovesimo della Russia), la nostra lingua è parlata da non più di 150 milioni di persone contro i 3 miliardi e 200 milioni che parlano inglese, contro il miliardo che parla la lingua urdu, quella di Bin Laden. Quindi non è che abbiamo elementi di base che giustificano questa nostra performance, abbiamo avuto però la nostra intelligenza e la nostra capacità di capire che il mondo stava andando verso la società post- industriale. Questa consapevolezza, nel secondo dopoguerra, ci ha messo fra i primo otto paesi del mondo. Quindi, se vogliamo lamentarci, lamentiamoci, però l’elemento di base è un elemento forte».

La sociologia ha il compito di essere molesta

«La sociologia, come dicevano i coniugi Lynd, ha il  compito di essere molesta, di scovare le contraddizioni del mondo attuale e di indicare le strade nuove per costruirne uno migliore». Segue il pensiero critico, a volte provocatorio, “stimolante ai confini dell’utopia”, del professor De Masi su alcuni temi alla base della tavola rotonda.

Il lavoro non è un luogo fisico

Non corrisponde più ad esigenze produttive e individuali la sincronizzazione richiesta dalla “catena di montaggio globale”, che vuole tutti presenti sul luogo lavorativo alla stessa ora, tutti in ferie lo stesso giorno, e così di seguito. Le tecnologie ICT, la materia prima del lavoro d’ufficio basata sulle informazioni, il passaggio da forme gerarchiche a forme funzionali di leadership, la organizzazione per obiettivi e l’autonomia professionale dei lavoratori, permettono ai capi di controllare i risultati piuttosto che i processi. Diventa possibile e necessario costruire nuovi modelli di produzione che diano alle aziende benefici in termini di flessibilità e produttività, ai lavoratori in termini di autonomia e alla collettività i vantaggi derivanti dalla redistribuzione geografica e sociale del lavoro.

Manutenzione delle competenze

«Alcuni dirigenti, e le associazioni professionali che li rappresentano, hanno dedicato più cura alle grandi kermesse contrattuali e allo smaltimento dei cosiddetti esuberi (la faccia luttuosa della medaglia aziendale) che non all’innovazione creativa effettuata sotto la spinta delle meravigliose opportunità offerte dalla tecnologia e dalla scolarizzazione (la faccia vitale della medaglia aziendale)».
Formazione professionale. «La formazione io vi auguro di farla bene: la formazione è la cosa principale, deve essere permanente. In realtà non si fa né come cosa principale, né in modo permanente» [Imparare facendo].

Scuola e Università

«In Italia abbiamo il dovere di parlare della felicità, per il semplice fatto che siamo fortunati. Siamo un paese che ha mille fortune che spreca per mancanza di cultura. Abbiamo una cultura introiettata che è quella che ci viene dal fatto di frequentare luoghi pieni di storia, di monumenti e di opere d’arte, ma abbiamo pochissima cultura acquisita perché le scuole fanno schifo e l’Università non funziona».

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Note:
  • maggiori informazioni su fonti, riferimenti e studi del professor De Masi sono disponibili sul wiki Inquietudo
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