Intervista a Maurizio Ferraris

Graziella Arazzi

Maurizio Ferraris, uno dei più importanti filosofi italiani contemporanei, è dal 1995 professore ordinario di Filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e filosofia della Università di Torino, dove dirige il Centro Interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata (CTAO). Allievo di Gianni Vattimo e di Jacques Derrida, è stato direttore di programma al Collège International de Philosophie (Parigi), visiting professor in numerose università (tra cui Colorado Springs, Monterrey, Ginevra, Montpellier, Lipsia) e, a più riprese, borsista della Alexander von Humboldt-Stiftung (Bonn). Collabora al supplemento culturale de Il Sole 24 Ore e a Il Manifesto, dirige la Rivista di estetica.

 In un laboratorio di ontologia, come quello che lei dirige, mi sembra che non si possa parlare dell’inquietudine, se non facendo riferimento al mondo di oggetti nel quale siamo immersi. In particolare, la curiosità che mi è venuta leggendo le sue opere (da Dove sei? Ontologia del telefonino a La fidanzata automatica) è se l’inquietudine abbia a che fare con i cosiddetti oggetti sociali (leggi, brevetti, normative, promesse, contratti,ecc.), la cui  caratteristica fondamentale è quella di essere registrati con varie forme di scrittura?

“ Esistono diversi tipi di inquietudine. Inquieto è chi tamburella con le dita sulla scrivania, chi si muove di continuo, chi cambia programma di ricerca cinque volte nella vita come Putnam, quattro volte come Russell, due volte come Wittgenstein e una volta come il sottoscritto. Se l’inquietudine viene fatta coincidere con gli stati d’ansia, allora abbiamo varie tipologie, che sono radicate nel carattere, dipendono dal modello di educazione ricevuta o sono legittimate da eventi esterni. Tutto questo ci indica che l’inquietudine è un insieme di fenomeni in cui si depositano una grande quantità di cose. Detto questo, è necessario anche sottolineare – e questo forse è meno ovvio – che l’inquietudine non è un difetto ma uno stato che può risultare piacevole. Quando si dice che l’inquietudine non è una cosa brutta viene da pensare immediatamente alla calma. Tuttavia, l’associazione tra queste due condizioni potrebbe suscitare una grande noia (un Caos calmo è terribilmente noioso!). La quiete è vicina alla morte, l’inquietudine no. L’inquietudine non è una malattia. Ad esempio l‘inquietudine non può essere scambiata per depressione. Chi è depresso è indifferente, non certamente inquieto”.

 E gli oggetti sociali di cui si parlava?

 “Nessuna delle fenomenologie dell’inquietudine ha una dimensione sociale. Dopodiché,  sembrerebbe che l’inquietudine non sia un oggetto sociale. Però, a ben vedere,  una delle caratteristiche degli oggetti sociali è quella di poter generare inquietudine. Si è inquieti quando ci si trova in situazioni che non siamo in grado di dominare, quando non si conoscono le regole del gioco, quando si ha di fronte a una persona che ci mette in soggezione. La maggior parte delle situazioni sociali comporta una qualche forma di inquietudine. In poche parole, se uno vuole stare calmo, è necessario che stia solo. Esiste una specie dominante di inquietudine, dove è comune il non ritenersi adeguato alle  prestazioni richieste. Volendo avvicinarci alla vera essenza dell’inquietudine, che non si risolva in una stato psicologico o in una reazione neurofisiologica, di risposta a una situazione ben determinata, si può affermare che essa è strettamente connessa alla struttura del mondo e della vita. In questo senso, l’inquietudine manifesta il suo aspetto positivo. Si tratta di rivedere, in altri termini, quello che Freud affermava in Al di là del principio di piacere, sostenendo che la pulsione di morte, il ritorno all’inorganico, sia più forte di Eros. Basta considerare le abitudini della gente e soffermarsi sull’enorme pubblicità delle vacanze e dei viaggi per rispondere che la scelta cade su Eros. Nessuno si tranquillizza al pensiero di realizzare la pulsione di morte!”.

 Eros come inquietudine?

 “Il principio di Eros è il pulsare medesimo dell’inquietudine. Eros si muove da una parte all’altra, risolve le situazioni stagnanti, come accade nelle Nozze di Figaro di Beaumarchais. L’inquietudine è quella che per gli Stoici era la passione, la perturbazione dello stato di quiete, l’incresparsi di una superficie d’acqua”.

In che cosa l’inquietudine si differenzia dalle altre passioni?

“E’ uno stato d’animo che può dipendere sia da fonti esterne sia da fonti interne. Molto spesso si è inquieti senza conoscere il perché. Altre passioni, come ad esempio, la felicità, richiedono un perimetro più definito. Si è felice solo per qualcosa di esterno che si ripercuote in positivo sulla nostra vita. Non esistono medicine in grado di produrre la felicità. Nel bugiardino dei vari psicofarmaci si legge difatti che possono provocare euforia, non certamente felicità. La curiosa peculiarità dell’inquietudine, a differenza della felicità, è che essa può prodursi sia per cose che ci sono sia per cose che non ci sono”.

 Se consideriamo l’estetica come teoria della percezione possiamo trovare uno spazio per l’inquietudine?

“Ci si può chiedere se l’inquietudine sia una qualità terziaria degli oggetti estetici, ossia una tonalità affettiva ed emotiva espressa da oggetti ed eventi. Per chiarire le idee, ad esempio, si può adoperare il termine inquieto come si adopera il termine lugubre? Direi di no. Un oggetto inquietante non è un oggetto lugubre. Da Hume a Freud, in arte, l’inquietante è il perturbante, ciò che scombina l’ordine dato e produce nuove configurazioni, l’elemento anticlassico di Goethe.  Nella produzione artistica, l’inquietante ha una rilevanza maggiore rispetto a fattori rilassanti, di quiete o di equilibrio. Lo testimonia De Chirico con l’opera Le muse inquietanti (1917), cui affida il dialogo con il mistero e con ciò che non si conosce. Nella fruizione del fatto estetico, si tratta indubbiamente di un’inquietudine regolata, poiché gli eventi rappresentati non ci preoccupano e non ci toccano direttamente”.

Jacques Derrida era un inquieto?

 “Direi di sì e lo testimonia il fatto che scrivesse moltissimo. La scrittura blocca l’inquietudine, scaccia l’ansia. E’ una forma che serve a contenere qualcosa di informe, è un vero e proprio marcatore di dominio. C’è un passo delle Enneadi di Plotino, in cui si dice “la forma è traccia dell’informe” e che Derrida ha assunto come punto di costante riflessione. Come l’inquietudine non è condizione negativa, le forme di regolazione sociale non sono limiti ma vincoli di positività e di sviluppo, condizioni che garantiscono la crescita delle varie dimensioni dell’esistenza (dall’amicizia all’ospitalità, al rispetto) A differenza di quanto si pensava nel Sessantotto – visto che siamo a quarant’anni di distanza e le celebrazioni ricorrono –  l’autenticità della vita si esprime nel dialogo o meglio nella gerarchia di forme plurali e non nell’abolizione di ogni vincolo. Educare un bambino significa orientarlo alla positività del vincolo, insegnargli a riconoscere le differenti modalità di contenere le variabili dell’esistenza, condurlo a utilizzare le forme che rendono possibile la vita sociale”.

Coltivare l’’inquietudine non significa, dunque,  distruggere forme e regole sociali…

 “Tutt’altro!”

 Recentemente ho ripreso in mano un saggio breve di Derrida, Il sogno di Benjamin, dove la ragione pare muoversi ai margini di quello che le sfugge…

 “E’ il testo del discorso che lesse a Francoforte il 22 settembre 2002, quando ricevette il Premio Adorno. Ero con lui e  fu una serata molto piacevole. Derrida cenò con Habermas, dimostrando di aver superato i motivi di un vecchio litigio. L’inquietudine tuttavia era presente. Un’inquietudine che Derrida legava alla morte del padre. Basti pensare che aveva presagito di morire a 74 anni, la stessa età in cui morì il padre,  e così avvenne nel 2004”.  

 L’intervista è stata pubblicata su La Civetta della Liguria d’Occidente Nr. 2/2009
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