La storia inquieta della musica 8 – Cantautori Medievali

Dario Caruso

Cantare l’amore, la politica e la vita quotidiana non è prerogativa del Novecento. Il cantautore in quanto tale nasce pochi decenni or sono, ma l’idea di un protocantautore si perde lontana nei secoli. Nel Medioevo l’Europa in generale e la Francia in particolare divengono culla di una nuova stirpe di musicisti, vicini come concezione all’uomo di spettacolo e di informazione, che unisce la parola alla musica, insomma uno chansonnier. Per arrivare meglio alle orecchie e al cuore della gente questi musicisti non potevano servirsi della lingua latina, troppo aulica e distante dal popolo; meglio utilizzare il volgare, la lingua del volgo, del popolo.
Il movimento trobadorico fu il primo movimento poetico della letteratura europea in lingua volgare ed ebbe nascita in Provenza, nel sud della Francia verso il 1100 diffondendosi poi nel nord della Francia ma anche in Germania, in Spagna e in Italia.
I trovatori della Francia Meridionale cantavano in provenzale, la lingua d’oc; i trovieri dalla Francia del Nord utilizzavano la lingua oïl, anche se una suddivisione così netta, in realtà, non si può fare.
Il nome trovatore deriva dal provenzale trobador, riconducibile al latino medievale tropatore ossia “inventore di tropi”: il tropus è infatti un genere di componimento in versi diffuso nel canto liturgico e in particolar modo nell’abbazia di San Marziale di Limoges.
Resta da capire chi realmente fossero questi signori che, armati di strumenti a corde, deliziavano le corti narrando l’amor cortese e la chanson de geste.
Spesso non appartenevano a famiglie nobili. È vero che inizialmente trattavasi di signori d’alto lignaggio, principi e castellani; in seguito però molti ebbero umili natali e dovettero l’acquisizione di una posizione di rilievo a illustri pigmalioni ed è pur vero che anche il fiorire della loro arte fu dovuta alla divulgazione in ambienti aristocratici.
Il primo trovatore di cui si ha notizia è Guglielmo IX di Aquitania, settimo conte di Poitiers (1087*-1127*). Bernart de Ventadorn (1120*-1195*), invece, era figlio di un fornaio nel palazzo dei duchi di Ventadorn. Egli era rigorosamente votato alla poesia d’amore per la dama che lo faceva soffrire, ma che allo stesso tempo sembrava concedergli la speranza della catarsi. La sua “Canzone della lauzeta” (Can vei la lauzeta mover) esprime il parallelo tra l’amore terreno per una donna e lo slancio mistico dell’anima verso Dio.
Raimbaut de Vaqueiras nacque invece a Vaucluse (1155*-1212*); giovanissimo venne in Italia al seguito di Bonifacio I, marchese del Monferrato. La divulgazione della sua opera influenzò in seguito la poetica di Dante e Petrarca. Curiose sono le liriche Eras quan vey verdeyar, che consta di cinque strofe, ciascuna in una diversa lingua romanza (occitano, italiano, lingua d’oïl, guascone  e gallego) e Domna, tant vos ai preiada, in forma dialogica, una lite tra due innamorati in occitano e in genovese.

* le date di nascita e di morte dei musicisti sono da considerarsi approssimative; spesso, infatti, non esiste documentazione per poterle fissarle con ragionevole certezza.

Can vei la lauzeta mover
di Bernart de Ventadorn

Can vei la lauzeta mover
de joi sas alas contral rai,
que s’oblida e·s laissa chazer
per la doussor c’al cor li vai,
ai! tan grans enveya m’en ve
de cui qu’eu veya jauzion!
Meravilhas ai, car desse
lo cor de dezirer nom fon.

Ai, las! tan cuidava saber
d’amor, e tan petit en sai,
car eu d’amar nom posc tener
celeis don ja pro non aurai.
Tout m’a mo cor, e tout m’a me,
e se mezeis e tot lo mon;
e can sem tolc, nom laisset re
mas dezirer e cor volon.

Anc non agui de me poder
ni no fui meus de l’or’en sai
que·m laisset en sos olhs vezer
en un miralh que mout me plai.
Miralhs, pus me mirei en te,
m’an mort li sospir de preon,
c’aissim perdei com perdet se
lo bels Narcisus en la fon.

De las domnas me dezesper;
ja mais en lor nom fiarai;
c’aissi com las solh chaptener,
enaissi las deschaptenrai.
Pois vei c’una pro no m’en te
vas leis quem destrui e’m cofon,
totas las dopt’e las mescre,
car be sai c’atretals se son.

D’aisso.s fa be femna parer
ma domna, per qu’elh o retrai,
car no vol so c’om deu voler,
e so c’om li deveda, fai.
Chazutz sui en mala merce,
et ai be faih col fols en pon;
e no sai per que m’esdeve,
mas car trop puyei contra mon.

Merces es perduda, per ver
(et eu non o saubi anc mai!),
car cilh qui plus en degr’aveI,
no·n a ges; et on la querrai?
A! can mal sembla, qui la ve,
qued aquest chaitiu deziron
que ja ses leis non aura be,
laisse morir, que no l’aon!

Pus ab midons nom pot valer
precs ni merces nil dreihz qu’eu ai,
ni a leis no ven a plazer
qu’eu l’am, ja mais nolh o dirai.
Aissi·m part de leis em recre;
mort m’a, e per mort li respon,
e vau m’en, pus ilh nom rete,
chaitius, en issilh, no sai on.

Tristans, ges non auretz de me,
qu’eu m’en vau, chaitius, no sai on.
De chantar me gic em recre,
e de joi e d’amor m’escon.

Traduzione letterale di Roberto Gagliardi (Accademia “Jaufré Rudel”):
Quando vedo l’allodoletta battere di gioia le ali verso i raggi del sole, tanto che s’oblia e si lascia cadere, per la dolcezza che nel cuor le scende, ah! quanta invidia mi prende di chiunque io veda gioioso: mi stupisco come all’istante il cuore non mi si strugga di nostalgia.

Ahimè, tanto credevo sapere d’amore e tanto poco ne so, perché non mi posso trattenere dall’amare colei da cui non avrò mai frutto. Il cuore mi ha tolto, (tutto) me stesso, se stessa e il mondo tutto; togliendosi a me, nient’altro mi ha lasciato che nostalgia e cuor desideroso.

Più non ebbi potere di me, né più fui mio dall’istante che mi lasciò guardare nei suoi occhi, in uno specchio che molto mi piace. Specchio, dopo che in te mi specchiai, mi hanno ucciso i profondi sospiri e così mi perdetti, come si perdette il bel Narciso nella fonte.

Delle donne dispero, in loro più non avrò fede; come solevo difenderle, ora le abbandonerò. Poíché vedo che nessuna mi offre aiuto contro colei che mi distrugge e mi rovina, tutte le temo e di tutte diffido, perché so bene che son tutte eguali.

In ciò si rivela veramente femmina la mia donna, per questo la biasimo, perché non vuole ciò che si deve volere e fa ciò che le si vieta. Sono caduto in disgrazia e ho fatto come il folle sul ponte, e non so perché m’avviene, se non perché troppo in alto mirai.

Mercede è perduta, è vero, (e mai non ne seppi nulla), perché chi più ne dovrebbe avere, non ne ha punta; e dove la cercherò? Ahi come dispiace, a chi la vede, che lasci morire e non aiuti questo infelice spasimante, che senza di lei non avrà bene!

Poiché presso Madonna noti mi possono valere né preghiere né pietà né il mio diritto, e non le piace ch’io l’ami, mai più glielo dirò. Così da lei mi separo e a lei rinuncio; mi ha ucciso, e come morto le rispondo: me ne vado infelice, esule, non so dove, perché ella non mi trattiene.

Tristano, nulla più avrete da me, perché me ne vado infelice, non so dove. Dal cantare mi astengo e desisto; rifuggo dalla gioia e dall’amore.

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