Limiti e inquietudini nell’evoluzione. Homo sapiens e altre catastrofi

Chiara Ceci
L’uomo potrebbe essere colto da inquietudine pensando che la propria esistenza sia frutto di un semplice accidente e che la sua specie, quella dei sapiens, sia l’unica sopravvissuta del cespuglio degli ominidi. Egli non deriva, dunque, da una evoluzione che si è succeduta in un concatenarsi di anelli mancanti, bensì ha convissuto con altri ominidi come un qualsiasi animale. La sua storia, quindi, non è particolarmente eccezionale e l’uomo sapiens non deve contemplare la sua “unicità”, bensì la grande “diversità” dei popoli del mondo che caratterizzano la sua specie.
L’uomo è frutto di un semplice accidente
Pensando alla storia dell’evoluzione della nostra specie molte persone sono colte da inquietudine o sconforto quando vedono che la nostra presenza è il frutto di una storia naturale simile a quella di tutti gli altri organismi. Molti non amano pensare alla propria esistenza come un semplice accidente, ma purtroppo per loro, questa è la realtà delle cose.
Il limite della paleoantropologia, e delle altre scienze che cercano di ricostruire la storia della nostra specie, è quello di riuscire a comunicare i dati che sono stati scoperti e interpretati senza farli passare con una idea di progresso annessa, quella che Stephen Jay Gould chiamava “l’iconografia della speranza”. Quando si riflette sulla storia dell’uomo è importante non fare emergere un certo senso di predestinazione, alimentato dall’epistemologia del progresso diffusa, e dal fatto che siamo l’unica specie  sopravvissuta del cespuglio degli ominidi. Bisogna sempre considerare il tempo profondo in cui questa storia è immersa. E non dimenticare che il tutto è calato in uno scenario complesso di ambienti che cambiano. Uno scenario fatto di contingenze. E, vale la pena ricordarlo, di convivenze con altre specie di uomini.
La specie dei sapiens ha convissuto con diverse specie di ominidi
Ecco infatti un’altra delle fonti di inquietudine che accompagnano la storia dell’uomo: gli altri uomini. Per molto tempo la Terra, o meglio solo una piccola porzione di essa, l’Africa, è stata popolata da diverse specie di scimmie bipedi. Le loro storie le leggiamo nelle ossa e negli strumenti di pietra che di loro ci restano. E, nei casi più recenti, anche nel DNA che troviamo nei loro resti o, ancora meglio, nel nostro DNA dove restano le tracce di un passato lontano.
Se solo potessimo per un istante tornare a un periodo che rappresenta solo una manciata di migliaia di anni prima della costruzione delle piramidi egizie vedremmo almeno quattro specie umane: i Neandertal, noi sapiens, gli erectus e i piccoli uomini dell’isola di Flores. Quattro storie affascinanti di specie diverse che condividevano un antenato comune. E qui dobbiamo tornare sul concetto della iconografia della speranza e della concezione di una evoluzione dell’uomo caratterizzata dal susseguirsi di una specie alla volta, con un concatenarsi di anelli mancanti fino a giungere ad Homo sapiens. In questo frame narrativo (errato sia nella forma che nella sostanza) è facile individuare una qualche straordinarietà e fortunata unicità del nostro percorso evolutivo. Invece la storia è andata diversamente, e se guardiamo all’album della nostra famiglia indietro di centinaia di migliaia di anni finanche a milioni di anni fa, vediamo una storia di convivenze di diverse specie di ominidi, una storia simile a quella di tutti gli altri animali.
“Siamo cittadini di un pianeta che ci ha generato in modo contingente.”
Di questa famiglia numerosa oggi restiamo solo noi a raccontare la storia e a loro dobbiamo certamente il tentativo di non interpretarla come una magnifica storia di progresso, perché niente doveva andare per forza in questo modo. Più che un senso di inquietudine, questo forse dovrebbe investirci di un grande senso di responsabilità.  Perché siamo “cittadini di un pianeta che ci ha generato in modo contingente e che abbiamo trasformato irreversibilmente, mettendo a dura prova la sua capacità di resistenza ma non la sua sopravvivenza. La biosfera, autorganizzandosi come ha sempre fatto nei tre miliardi e mezzo di anni di esistenza che hanno preceduto il nostro arrivo, supererà brillantemente tutte le perturbazioni che le perversioni umane potranno immaginare. Tutto sta nel capire se la prossima soglia di autorganizzazione prevederà o meno l’esistenza di un mammifero di grossa taglia, appartenente all’ordine dei primati, distribuito su tutto il pianeta” (Telmo Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, Meltemi 2002, pag. 26).
L’uomo non deve contemplare la sua “unicità” bensì la sua “diversità”.
Eccoci qui dunque, noi uomini sapiens a contemplarci nella nostra “unicità”. Ma guardandoci bene la parola che meglio caratterizza la nostra specie è “diversità”. La matrice della storia dell’umanità sta nella unicità (apparteniamo tutti alla stessa specie e siamo tutti il risultato di una migrazione fuori dall’Africa di poche centinaia di individui), ma da questa ha avuto origine la grande diversità dei popoli del mondo. Fratelli per biologia, uniti dal patrimonio genetico e dalla storia, uguaglianza e differenza colorano il mondo di diverse culture, tradizioni e  lingue.
Indagare la diversità che vediamo oggi nelle popolazioni umane è certamente un’impresa affascinante e, conoscendo la storia della nostra specie e delle altre specie della nostra famiglia, essa costituisce ancora di più una sfida importante per rispondere ad alcune delle domande che ogni uomo, di ogni popolo e cultura, si pone su sé stesso e sulla propria storia.
Proprio perché le cose potevano andare diversamente, la storia della nostra specie, sebbene non sia particolarmente eccezionale rispetto a quella delle altre specie, merita di essere raccontata e conosciuta. Comprendendo i nostri limiti e scavando le radici delle nostre inquietudini.
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