Massimo Fini: Il rimpianto del Tempo Perduto (o dell’inquietudine del desidero impotente)

Elio Ferraris

Nel romanzo di Proust “Alla ricerca del tempo perduto” è l’aristocrazia che conclude la sua splendida parabola; nel libro di Massimo Fini “Ragazzo. Storia di una vecchiaia” è la splendida generazione dei sixties che annuncia la sua uscita di scena.


E con essa, a denti stretti, bisbiglia la sua desistenza quella borghesia, nata ai margini dell’ultima guerra, viziata dal boom, ingorda di potere ed esperienze planetarie, immune da catastrofi epocali, che ha fatto il bello e cattivo tempo nel Tempo assegnatole.

Ragazzo. Storia di una vecchiaia
La riflessione di Massimo Fini è lucida, spietata, avvolgente. Vissuta, si potrebbe dire, dall’abisso dei suoi 63 anni.
Per questo ti sbatte in faccia una data certa d’inizio della vecchiaia, quei 60 anni definiti dai Romani extrema aetas e ti disillude circa la sbandierata bellezza dell’allungamento della vita media; ti dice che è semplicemente aumentato il tempo da vivere in questa “età atroce” e ti evidenzia con forza che quel tempo in più – che la scienza, la medicina e le condizioni di vita ci hanno “regalato” – lo devi vivere per forza; non ci sono alternative.
Anzi, ti tocca, in quel tempo, convivere con tutti i problemi dell’età, tra cui, “l’inquietudine del desidero impotente”, condizione ben peggiore “dell’impotenza pura e semplice”. Bellissima immagine per indicare ciò che del sesso rimane.

L’inquieto Règis Debray e la senilità
Un libro della disperazione, quindi? No! ma della disillusione sì.
L’analisi dell’invecchiamento della popolazione e della progressiva diminuzione della capacità da parte degli anziani ad affrontare la vita nella nostra società è, da parte di Fini, realistica ed amara. Prossima a quella che il nostro Inquieto dell’Anno Régis Debray svolge nel suo “Fare a meno dei vecchi?”. Il filosofo francese, però, sorpassata anch’egli da poco la soglia della vecchiaia, è provocatorio all’estremo: propone di confinare gli anziani in una riserva naturale chiamata Bioland. Qui la perfezione delle relazioni umane si sublima al termine di una vita quando “Come già sperimentato al Royal College of Arts di Londra, si potrà prelevare una cellula dalla bocca del de cuius, estrarne il DNA, iniettarlo in una cellula di un melo o di un ciliegio….” che potrà poi essere piantato nel giardino di casa per far ritrovare nel dessert, al congiunto che lo desiderasse, “l’indefinibile sapore, lasciandosi sciogliere in bocca piacevolmente il codice genetico dello scomparso, celato in uno spicchio di mela o di ciliegia”.
Massimo Fini è, forse, ancora più perfido: l’uscita di scena migliore sarebbe il suicidio ma “Il suicidio del vecchio di oggi non ha nulla a che fare con la morte. Ma con la vita. La sua vita. Non è più suicidio epico. E’ un suicidio per disperazione. E’ piuttosto l’ultima dimostrazione di come, ad onta di tutte le ipocrisie e le fandonie sulle bellurie della ‘terza età’, la sua sorte di vecchio, abbandonato impietosamente nella sua drammatica solitudine, senza ruolo, senza autorità, senza più dignità, sia diventata crudele”.
A questo punto ci si aspetterebbe una conclusione personale altrettanto cruda. E, invece, Massimo Fini da cinico vero conclude “Quanto a me, attendo. Aspetto di vedere quale morte mi riserverà il destino. E se saprò esserne all’altezza. E’ la sola curiosità che mi resta”. Grande! Da vero Inquieto! Curioso e giornalista fino…all’estremo. “Finché si è inquieti, si può stare tranquilli” diceva l’ultraottantenne scrittore “francese” Julien Green.

Intellettuale e giornalista borderline
Ma quella esposta fin’ora è solo una parte del libro.
L’altra è un vero inno all’infanzia, alla giovinezza, persino alla condizione umana adulta finché essa consente di guardare al proprio tempo con la fierezza di chi sa che può ancora lanciare il guanto di sfida o ergersi come Capaneo a bestemmiare Dio nel tentativo di mettersi al suo pari.
L’altra parte del libro è un piacevole scorrere l’album delle fotografie dell’Autore, del padre, anch’egli illustre giornalista, Direttore del Corriere d’Informazione, della madre russa, dispotica, dura, anaffettiva, delle domestiche, della insaziabile Elda in particolare, dei compagni di infanzia e di una vita, come il nostro altro Socio Onorario, Giagi Assereto, delle sue vacanze a Savona, delle sfide al mare agitato, del più bel gol segnato, dell’oratorio dei Salesiani, della signorile casa dei giornalisti, del  condominio popolare a Milano con quell’andirivieni di gente popolare e di quei viaggi in giro per l’Italia con la bella gente protagonista dei nostri tempi: Susanna Agnelli, le bellissime Marina Ripa di Meana e Edwige Fenech, il bel Claudio Martelli, i fratelli Mosca, Luca di Montezemolo, Piero Ottone ecc. ecc. E ancora di quei viaggi per il mondo come inviato estero nel cuore della storia.

Contrastare il Tempo
“Credo di avere fatto il giornalista – scrive Fini – nell’illusione di contrastare il Tempo, di allungarlo, di dilatarlo vivendo più vite coll’immergermi in quelle altrui. E ho distillato la mia con la studiata lentezza con cui si spillano le carte da poker, cercando di assaporarne ogni istante. E se ho sempre amato la notte è perché ha la qualità del tempo sospeso “
Indomabile nottambulo ed indomito “ribelle” come recitava il titolo del suo penultimo libro. Novello Catilina, prototipo storico del ribelle, a cui Fini aveva dedicato un altro suo studio.
Intellettuale vezzeggiato e blandito, avrebbe potuto essere una opinion star del caravanserraglio televisivo se il suo essere borderline fosse stato di maniera e non naturale e sofferto.
Ma è per questo che ci piace e che siamo onorati di annoverarlo tra i nostri Soci Onorari.

Tra “atra aetas” e “L’altra giovinezza
Conosco da poco Massimo Fini e, leggendo i suoi libri, so che molte cose ci differenziano. Ci avvicina – oltre all’Inquietudine – la prospettiva atra, cupa nella quale tra poco entrerò anch’io. Una sensazione che mi ha reso ancor più dura e gradevole la lettura del suo libro e stimolato il rimpianto del Tempo Perduto, anche se le speranze sopravanzano ancora i ricordi e le nostalgie.
Sarà per questo che con molta curiosità sono andato a vedere il criticatissimo “L’altra giovinezza” di Francis Ford Coppola. Ricavandone molte suggestioni. Ovviamente una, in particolare: che una scarica elettrica – come quel fulmine che colpisce il protagonista, il professor Dominic Matei – non possa un giorno folgorare anche noi e donarci un’altra giovinezza, rigenerarci, dotarci di capacità mentali straordinarie, trasformarci, insomma, in un mutante, in una prefigurazione dell’uomo poststorico.
Oppure, come ci tramanda la cultura andina, lo stesso fulmine non possa trasformarci in sciamani dotati di poteri tali da farci uscire dall’oscurità dell’attuale condizione umana o, ancora, come dice un personaggio di Eliade, farci vivere in contatto con le “beatitudini”, “unica tecnica capace di rendere tollerabile la longevità”. Chissà?
O, forse, caro Massimo, quel fulmine è meglio che ci carbonizzi all’istante?

 

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