L’inquietudine nel tempo di Facebook

di Maura Franchi

Il desiderio è mancanza

Senza l’idea di individuo non esisterebbe il concetto di desiderio, un’idea che prende corpo via via che la società si libera dal bisogno. Non ci sono desideri quando prevalgono i bisogni, non avere soddisfatto i bisogni elementari non comporta inquietudine, ma solo sofferenza, disagio.

Non è solo la libertà dal bisogno a consentire l’emergere del desiderio, ma è anche l’idea che sia legittimo aspirare alla felicità. Solo ad un certo punto, nella storia, si afferma questa idea. Per lungo tempo la felicità è stata rinviata ad una vita altra da quella terrena.

Il desiderio è per definizione inquieto, perché si sposta di continuo verso altri obiettivi. “Non sei mai contento” ci dicono da bambini o da adolescenti quando, di fronte ad un regalo, o ad una concessione, avanziamo altre richieste. Un commento in palese contraddizione rispetto alla regola del desiderio: quella di non essere mai pago.

Il desiderio è mancanza. Ed è, per sua natura, sganciato da un oggetto specifico e da un obiettivo preciso, se così fosse, parleremmo di progetto, non di desiderio. Il desiderio sta tra la mancanza e l’attesa, ma per questo è destinato a restare inappagato, nel senso che nel momento in cui viene appagato si annulla. L’esito del desiderio appagato è solo una copia del desiderio che lo aveva innescato, in ogni caso nessun desiderio appagato chiude e sazia l’atto del desiderare.

Il desiderio indica un’apertura verso ciò che non conosciamo, non abbiamo realizzato e talvolta nemmeno sperimentato, per definizione implica inquietudine.

La scelta: un “progetto” e non un destino

La scelta è l’altro termine chiave che si associa alla libertà di scegliere. L’idea della scelta accompagna il processo di individualizzazione: l’individuo si libera dai vincoli ereditati e può fare di sé un “progetto” e non un destino. Assumiamo che esista libertà di scelta rispetto ai modi in cui vogliamo condurre la vita, ne siamo gelosi custodi. La libertà delle traiettorie di vita si accompagna al sentimento dell’unicità di ogni biografia.

Questa idea non è sempre stata presente nella storia: nei tempi antichi prevaleva l’idea di destino, e non la convinzione che gli uomini fossero liberi di autodeterminarsi.

La scelta nella società attuale è in gran parte scelta di consumo e propone un’altra questione: l’eccesso di scelta. La quantità delle alternative a disposizione si è così ampliata che nessuno potrebbe affermare di essere in grado di scegliere in modo razionale l’alternativa migliore. L’eccesso di scelta rischia di condurci ad una minore soddisfazione e ad una più accentuata inquietudine.

Emerge qui un’altra accezione del termine inquietudine, che deriva dalla possibilità di errore che si associa alla libertà scelta, ma anche dalla sensazione di continua mancanza indotta dall’eccesso. L’errore è una dimensione implicita nel processo di decision making, anzi l’errore è il principale veicolo di apprendimento. Si può dire che gli esperti, in qualunque campo, sono coloro che hanno sbagliato di più.

L‘esercizio della verifica, la considerazione ricorrente degli esiti delle scelte compiute è una condizione dell’apprendimento. Ma un’eccessiva propensione alla verifica può produrre indeterminatezza.

La libertà di scelta consente di trasformare (almeno in parte) un desiderio in progetto, ma ci espone al possibile sentimento del rimpianto.

Responsabilità e accountability

Qui entra in gioco un’altra parola chiave: responsabilità. Nella società odierna, ogni cosa è ricondotta alla nostra responsabilità e la responsabilità ci espone alla colpa del fallimento. Viviamo immersi in un continuo bilancio di ciò che abbiamo o non abbiamo fatto.

Il richiamo alla responsabilità investe ogni ambito della vita: il lavoro è l’esito della capacità di costruire le condizioni della nostra occupabilità, la salute dipende dalla nostra capacità di seguire la “giusta” alimentazione ed è, quindi, anch’essa, una nostra scelta, le relazioni sono l’esito della nostra capacità di costruirle e alimentarle.

Facebook dice questo con assoluta evidenza. Cercare e ottenere relazioni dipende da noi, dalla capacità di rendere attraente il nostro profilo, dalla capacità di allestire la nostra vetrina con immagini festose, in grado di rendere noi stessi oggetto di desiderio per gli altri.

Le relazioni sono l’esito di un compito che dobbiamo eseguire con successo. Persino la felicità rientra nello stesso scenario: l’infelicità è il segno di un fallimento di cui siamo chiamati a giustificarci. Lo dimostra il fatto che “giustifichiamo” con l’infelicità con il termine di depressione, riconducendo l’infelicità ad una malattia che la rende “accettabile”.

L’inquietudine si colora di valenze “inquietanti”

L’inquietudine si colora di inadeguatezza, trovando, quindi, un’ulteriore accezione. Il tempo di internet ingenera l’idea che esista una risposta per ogni cosa e che il problema sia solo quello di cercarla. Se non troviamo la risposta è perché non abbiamo saputo trovarla.

Abbiamo così l’impressione che l’inquietudine si colori di valenze via via più “inquietanti”: da desiderio mai pago – energia vitale, a rischio di errore a diffusa sensazione di fallimento rispetto ad ogni risultato mancato che da diritto diventa obbligo.

Nel momento in cui la nostra vita è permanentemente messa in vetrina, desiderio, individuo, scelta assumono un carattere intrinsecamente relazionale. Il desiderio si trasforma in desiderio mimetico, che scaturisce per identificazione con la presunta felicità degli altri. Amiamo ciò che gli altri amano.  Il principale desiderio è di essere riconosciuti, di essere visibili.

La libertà di scegliere si scontra con una infinita abbondanza che ci rende difficile attribuire una salienza alle alternative. Internet è l’emblema di un’informazione infinita: un’infinita superficie in cui tutte le risposte sono previste. Sono risposte che restano, però, in attesa di domande.

Il nostro sguardo su di noi è filtrato dallo sguardo degli altri. Siamo esposti alle vite degli altri. Il successo ostentato delle vite degli altri – le foto delle vacanze, delle feste, i sorrisi smaglianti ostentati, il gioco – alimentano la percezione di inadeguatezza per tutto ciò che resta al di sotto delle immagini diffuse.

Rischio della con-fusione

Viviamo il rischio della con-fusione, l’assenza di confini tra noi e gli altri dalla cui presenza non ci allontaniamo mai. Come ritroviamo un po’ di silenzio rispetto alla perenne immersione negli stimoli uditivi? Come ritroviamo un po’ di vuoto per distinguere la mancanza e perché essa non sia saturata immediatamente di oggetti?

Come ritroviamo un po’ di solitudine per ascoltare la nostra inquietudine? Magari per soffrire in santa pace, come diceva Troisi all’amico che cercava di consolarlo dalle pene dell’abbandono nel film cult Credevo che fosse amore e invece era un calesse: “vai via, lasciamo solo, se ci sei tu mi distrai, non soffro bene”.

Ovviamente questo non vuol essere un elogio della sofferenza, né dell’isolamento, piuttosto l’invito a non smarrire il gusto per l’esercizio riflessivo che ci proietta “oltre” ciò che siamo e abbiamo ottenuto, verso altre sfide, o altre mete, che ci impedisce di identificarci completamente in un ruolo, in una posizione o in un gruppo.

Dibattiti&Incontri:                                                                                                                                                                                                “Il nostro futuro: un progetto e non un destino, inquietudine al tempo di facebook”
venerdì 27 maggio 2011, ore 11.00, Primo Chiostro

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